Il 15 ottobre di chi non legge i giornali, non guarda i TG, non pascola su Facebook, e soprattutto non finirà domani…
A una settimana dalla manifestazione del 15 ottobre, pubblichiamo queste riflessioni buttate giù nelle ore successive al corteo, nel pieno della criminalizzazione repressiva e della psicosi mediaticadella caccia al black bloc, poi meditate e discusse con altri compagni nei giorni successivi. Non le pubblichiamo per rimestare ancora in un dibattito che ha visto scrivere tanto, forse anche troppo.
Ormai alcuni elementi emersi nei comunicati di movimento ci sembrano largamente condivisi, ed ora ostinarsi a parlare del 15 è rimanere prigionieri del passato, peggio: rimanere presi nella trappola del media e dell’istituzione, che ti rappresenta una giornata a senso unico, ti inchioda lì e ti spinge a cercare di dare “ragioni” di quello che è successo, come se quello che è successo (in definitiva: qualche macchina bruciata e qualche ora di casino a Piazza San Giovanni) sia la cosa più importante del mondo. Di fatto annullando i tuoi percorsi reali, cercando di trasformare una giornata in trauma – qui anche ribaltare simmetricamente il discorso dominante (dicendo: “sì ma c’è la rabbia giovanile” o “i black bloc non esistono”) non basta più. Meglio scartare, fare un passo di lato.
Così se pubblichiamo ste righe è proprio per dire che c’è dell’altro, per rispondere ad un sacco di ragazzi che sono venuti in bus con noi e che, sorprendendoci, ci ha chiesto che ne pensiamo perché nonostante tutto vogliono continuare; se le pubblichiamo è perché in noi e in loro è ancora forte quell’impressione di aver vissuto un altro 15 ottobre, quella voglia di dare importanza alle cose “vere”, alle persone incontrate, con problemi reali, davanti a cui la camionetta smette di bruciare, per rimettere al centro le questioni che ci toccano per davvero. Si tratta ora di andare avanti, di continuare i percorsi avviati, e quello che è successo il 15 lo capiremo solo facendo. Noi abbiamo già iniziato, portando in questa settimana a Napoli il No Tav Tour e affrontando la conseguente criminalizzazione dei media con una risposta di massa, portando all’università ed in piazza centinaia di persone. Ed altri appuntamenti ci aspettano…
Last but not least: tutto st’inchiostro per dire tutto e il contrario di tutto, per fare sofisticate analisi, per situarsi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra nel dibattito, ma i ragazzi presi, questa specie di cristi in croce che dovrebbero assolvere i peccati di tutti noi, come stanno? Quali sono le loro condizioni fisiche, morali, giudiziarie? Chi ne sosterrà le spese legali? Hanno ricevuto sufficiente solidarietà? Ecco, anche rispondere a ste domande è fabbricare un futuro oltre i demoni del 15 ottobre.
Madonna che noia! Tornati a casa dal corteo del 15 ottobre, un giro sui siti, poi un salto sui profili di amici e compagni, poi per sbaglio la televisione. Ed ecco arrivare massiccio il disgusto. Disgusto sì, perché chi si può ancora incazzare per le dichiarazioni della nostrana destra fascista, per l’infamità di un giornale come Repubblica, per le dissociazioni di un Vendola o di un Casarini, questi opportunisti da operetta che inseguono disperati il potere e non riescono manco ad avere una poltrona in Parlamento?
Siamo davanti al solito schema, collaudato da almeno dieci anni: la destra che dice che i giovani sono teppisti, che i black bloc vengono dall’Impero Austro-Ungarico e che in ultima analisi la colpa è del centrosinistra e persino di Draghi che con i suoi toni rivoluzionari li incita a sfondare tutto. Il centrosinistra che nella sua vacuità paraculeggia fra piazza e palazzo, esprime solidarietà imbarazzata alle forze dell’ordine invocando misure repressive degne del Ventennio, perché sappiamo tutti dove abitano i “violenti” e li potevamo andare a prendere prima del corteo. La sinistra, da SEL alla FIOM, passando per i disobbedienti nella loro ultima trasformazione di “Uniti per l’alternativa”, sbraita contro i “cattivi”, inventa infiltrati, ribadisce la propria non-violenza mentre minaccia “regolamenti di conti” all’interno del movimento, sputa veleno intuendo che si è rotto il giocattolino che li avrebbe dovuti – solo nei loro sogni, però – portare al governo, mettendo un bel cappello antiberlusconiano sulla piazza “indignata” e candidando i propri leader alle primarie del PD, fra un comizio scontato ed bel concerto. Alla fine chi ne esce meglio è proprio Draghi che, dopo aver scritto l’agenda di lacrime e sangue che distruggerà le vite di migliaia di persone, risulta un simpaticone perché si è schierato con i manifestanti, ed il caro vecchio Napolitano, che mette tutti d’accordo difendendo il decoro urbano della Città Eterna e la gloriosa civiltà italica…
Dieci anni dopo Genova lo stesso schema, solo un piccolo “taglio” sul sangue: sarà la crisi? In ogni modo tutto è pensato per spostare il fuoco del problema, per disinnescare la rabbia della gente, per dividere i manifestanti, per criminalizzare le lotte e dire: “siamo in democrazia, il dissenso è possibile, ma solo come diciamo noi”: fate un bel flash mob ed una bella petizione su internet e vi facciamo uscire bene in TV… I più fessi, come sempre, abboccano, e da pacifinti quali sono, mettono le mani addosso a qualche ragazzino vestito di scuro mentre dicono ogni giorno “sissignore!” ai loro capetti, sul lavoro o in sede di partito. Imputano ai “cattivi” il fallimento di una manifestazione che nella loro testa ci avrebbe consegnato il giorno dopo un governo di brava gente devota al popolo, intenta a lavorare per il bene comune. “Pacifinti” inconsapevoli (e non sempre), di far parte a pieno titolo della strategia repressiva messa in campo in seguito al corteo. Una strategia vecchia e ripetuta più volte che si è attivata immediatamente e che nei giorni a seguire ha dato il via alla “caccia al facinoroso”, in rete e non solo, ma bussando alle porte delle persone che il 15 erano in piazza o che semplicemente sono conosciute per la loro presenza nelle lotte di ogni giorno. In tutta Italia perquisizioni a casaccio, solo a Napoli 20 sono state le persone svegliate all’alba dalle forze dell’ordine. E nel tentativo di terrorizzare l’opinione pubblica sui presunti “black bloc” rientrano pienamente le dichiarazioni dei vari Di Pietro e Maroni che propongono leggi speciali per i cortei, arresti preventivi e addirittura la reintroduzione della “Legge Reale” (il provvedimento che da di fatto alle forze dell’ordine la licenza di uccidere e che durante gli anni di Piombo ha fatto ben 625 vittime).
Il loro 15 ottobre sembra tutto raccolto in questa miseria intellettuale e umana, in queste povere opposizioni buoni/cattivi, violenti/non violenti, di fronte a cui viene da esprimere un sentimento e un concetto forse semplice, ma discriminante: la vicinanza ai ragazzi e ai compagni feriti, la solidarietà agli arrestati, l’assunzione e la rivendicazione – che non vuol dire necessariamente condivisione totale – di tutto quello che la piazza ha espresso. Un atteggiamento che ci piace ritrovare nei medici e negli infermieri che hanno protestato contro il comportamento della polizia che il 15 prelevava i feriti dagli ospedali, mostrando che molte persone “normali” sanno benissimo dove passa l’unica opposizione di cui non si può discutere, quella fra amici e nemici.
Il 15 ottobre che abbiamo vissuto noi è completamente diverso e lo proveremo a raccontare… Un 15 ottobre che mette da parte l’ipnosi dei media, il “dettaglio” del coccio rotto che diventa tutto il vaso, ed assume come centrale quello che succede nei rapporti reali, nei percorsi che si costruiscono giorno per giorno, nei discorsi che ci legano e ci danno un futuro. Anche perché le dinamiche dei media non le controlliamo mica: avessimo fatto un corteo pacifico saremmo svaniti domani, avessimo rotto una vetrina sola si sarebbe comunque parlato solo di quello. In mezzo a queste due alternative la via c’è, ma è sempre molto stretta, e forse in questo caso era ancora meno percorribile del solito, perché presuppone un minimo di chiarezza, rispetto ed accordo nel movimento. Vale quindi la pena di concentrarci su quello che ci rimane di questa giornata, sperando che la nostra piccola esperienza positiva sia condivisa e spinga anche la riflessione dei compagni in un’altra direzione.
Ed allora ci viene da dire innanzitutto una cosa, che “stranamente” è scomparsa: eravamo tantissimi, quattrocentomila, per una manifestazione che aveva molto di autorganizzato. È un numero che quadruplica quelle che erano le aspettative degli stessi organizzatori a pochi giorni dal corteo, e che andrebbe interpretato. Può significare una cosa negativa: cioè che nella testa della gente c’è ancora molta logica dell’Evento, e che il lavoro politico quotidiano non è riconosciuto come una necessità, visto che le iniziative sparse delle diverse realtà politiche non riescono ancora ad aggregare numeri significativi. Ma può anche significare che – nel momento di una comprensibile, scarsa credibilità delle organizzazioni grandi e piccole – scendere in una grande piazza ha ancora un valore ed un senso per centinaia di migliaia di persone che sono incazzate, che non ce la fanno più di questo stato di cose. E questo sarebbe già un elemento da non sottovalutare affatto, perché è un sentire che non si cancella il giorno dopo una manifestazione, comunque sia andata!
Nel nostro piccolo possiamo dire che da Napoli, superando di gran lunga anche le nostre aspettative, nel giro di una settimana centinaia di persone hanno deciso di prendere il proprio posto sul pullman e di partecipare al corteo. Abbiamo parlato con tutti i ragazzi, studenti e precari, che hanno condiviso il viaggio e lo spezzone con noi, e tutti esprimevano rabbia e confusione, incertezza sul futuro e sui modi per strapparlo, ma tanta insoddisfazione, non verso il singolo dettaglio (questo governo, il mio lavoro, la mia città), ma verso il sistema nel suo complesso. Persone che hanno chiarissimo in testa quello che non vogliono, che sanno quello che vogliono, ed ignorano come noi quello che ci sta in mezzo, ma intendono provarci comunque…
Ecco, questo è il nostro 15 ottobre, completamente diverso da quello dei media: non uno colorato e scherzoso da opporre ai pochi “neri”, ma uno fatto da gente normale, da figli di lavoratori e ragazzi che si faticano la vita e che, anche se a digiuno (forzato, visto che ce lo impongono dall’alto) di politica e di ideologie, non hanno problemi a scendere in piazza insieme a noi che siamo comunisti e diciamo che vogliamo sovvertire i rapporti di classe di questa società. Gente che non ha problemi a difendere con cordoni il corteo, non si spaventa troppo di chi indossa il casco per evitare che la testa gli sia rotta dal carabiniere di turno, e che è più consapevole di tanti compagni, perché non condanna la violenza a priori, o la esalta acriticamente, ma gli interessa solo che abbia un senso e che sia espressione collettiva.
Così siamo stati uguali ed insieme in piazza, caratterizzando una parte consistente del corteo in senso anticapitalista, gridando slogan niente affatto generici ed “indignati”, provando molecolarmente, di incontro in incontro, di volantino in volantino, a riportare al centro della discussione il metodo ed il bisogno di un’altra società. Provando a dare importanza alle relazioni che si costruiscono fra di noi che ci parliamo e ci guardiamo in faccia e ci assumiamo le nostre responsabilità, relazioni che non sono mediate da nessun media, e che forse messe insieme faranno progetto politico comune.
Vista così, dal nostro piccolo ma vero punto di vista, cercando di privilegiare il momento dell’incontro con chi poi speriamo da oggi in poi sarà il movimento a livello territoriale, la giornata del 15 cambia totalmente di senso. Smette di essere l’Evento alla cui istantaneità si affida un valore assoluto di prova e di controprova, e diventa – se sapremo continuare a lavorare bene, a spiegare ragioni, a dimostrare l’efficacia delle nostre azioni – un piccolo mattone di una costruzione più grande, di una mobilitazione autunnale che può far nascere una vera opposizione in questo paese.
“Tutti vedono la violenza del fiume in piena. Nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono” … Chi sono i violenti? La potenza evocativa delle immagini di devastazioni e incendi non sembra lasciare spazio a dubbi. E’ la violenza incontenibile del fiume in piena. Ma quali argini l’hanno costretta sinora, fino a farla esplodere in maniera così devastante? E’ la violenza non raccontata dell’intero sistema capitalista, che si abbatte quotidianamente con brutalità sulle nostre vite e soffoca aspirazioni, speranze, sogni. Non ci sorprende, a differenza di altri, che la manifestazione di Roma, essendo la più partecipata d’Europa, fosse anche la più conflittuale. L’Italia in questo momento si trova nell’occhio del ciclone, pronta a subire le stesse “cure” imposte dalla Banca Centrale Europea ad altri paesi, come la Grecia, che proprio mentre scriviamo è scesa nuovamente in piazza, in maniera partecipata e radicale, assaltando il parlamento, dopo aver dichiarato uno sciopero generale di 48 ore. Inutile, dunque, parlare di anomalia italiana rispetto alle altre manifestazioni europee, inutile parlare di paradosso: “la più partecipata ma la più violenta”. Noi pensiamo che le due cose siano andate di pari passo, perché hanno la stessa causa (l’acuirsi della condizione di futuro “precario”) e che la specificità italiana (con le tre manovre finanziarie di quest’anno) abbia solo fatto da benzina ad una miccia già accesa, che a guardar vicino ha bruciato già nel 14 dicembre scorso.
Dal punto di vista generale, il 15 ottobre non è stato altro che lo specchio di quella che è la confusione del momento, anche fra le aree dei compagni. Ed è per questo che non ci deve spaventare né lo dobbiamo esaltare. A livello di massa testimonia di una giusta intuizione, quella di prendere anche la piazza per imporre un cambiamento. Ma rivela pure diverse immaturità: quella di aspettarsi ancora qualcosa dalle vie istituzionali, quella di aver introiettato il moderatismo, la subalternità e la mancanza di sogni come orizzonte di vita, quella di non saper individuare degli obbiettivi comuni su cui convergere tutti, ognuno con la sua sensibilità, quella di esaurirsi nel “bel gesto” senza nemmeno preoccuparsi di essere capiti dagli altri.
Forse, di questo 15 ottobre, si può solo dire che è stato. Al momento è una bella “X” (perché non c’è nessuno che può dire di aver vinto ieri, semmai c’è solo qualcuno che ci ha rimesso di più), una “X” con un punto interrogativo vicino… Di buono c’è che sono, se non saltati, almeno ostacolati i progetti governisti di una parte del movimento, che non ha più l’egemonia sulla piazza e che dovrebbe fare di più i conti con la rabbia delle persone, invece di provare costantemente a imbrigliarla facendo passare il corteo lontano dai luoghi (almeno simbolici) del potere. Di cattivo c’è che la giusta violenza degli oppressi non ha avuto un obbiettivo chiaro, non si è dispiegata in un tentativo di convergere verso il Parlamento, di comunicare che ci andavamo a riprendere quello che loro dicono essere nostro. La violenza ha preso di mira quello che poteva, ma non sempre quello che “si poteva” è quello che “andava fatto”.
Da questo punto di vista la differenza con gli scontri del 14 dicembre c’è tutta: lì i poliziotti e la strada erano solo un ostacolo verso un governo che aveva appena “comprato” la fiducia, non l’obbiettivo ultimo della nostra lotta. E quando tornammo a casa tutti ci dicevano “bravi”, perché avevamo interpretato un sentimento popolare, quello che tutti volevano fare, nonostante il bombardamento buonista della Repubblica e di Saviano. Tanto che per “recuperare” quel movimento a più miti consigli ci volle una gigantesca operazione con protagonista Napolitano ed i capetti del movimento che andarono a fargli visita; oggi invece potrebbe bastare ripetere all’infinito la sineddoche della camionetta bruciata e l’accanirsi contro i “soliti” centri sociali, magari comminando pene pesantissime agli arrestati. Così un po’ di amarezza resta in bocca a tutti, militanti e non, non solo per non essere arrivati al Parlamento, ma per non averci manco potuto provare perché la situazione è diventata subito ingestibile, e per non aver nemmeno terminato il corteo dove si era detto.
Insomma, il 15 ottobre è stato. Ma cos’è stato per davvero lo capiremo fra qualche giorno o qualche settimana. Dipenderà di sicuro dall’apertura mentale dei compagni, che devono lavorare non solo a decostruire la narrazione dei media, mostrando chi sono i veri violenti – le forze dell’ordine certo, ma anche Marchionne, Marcegaglia, Draghi, la Troika europea, le agenzie di rating, tutti quelli che decidono delle nostre vite –, ma anche a definire bene gli obbiettivi e la strategia per sconfiggerli. Ma dipenderà soprattutto da voi per cui scriviamo, dai tanti che sono scesi per la prima volta in piazza, da quelli che non sono scappati, da quelli che hanno voglia e coraggio per continuare.
Coll. Architettura Break Out – Collettivo Autorganizzato Universitario
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